“«In questi ultimi giorni, non ho fatto che pensare all’interminabile giorno dell’estate al capo Nord. Me ne sto qui, in casa, solo soletto, mi fisso in quel pensiero e mi torna in mente la capanna, dove abitavo, dietro la quale frondeggiava la foresta. Per ammazzare il tempo e procurarmi uno svago, tant’è che pigli la penna e scriva qualche cosa. Il tempo si trascina avanti con una lentezza disperante, nè a me riesce in alcun modo di accelerarne il corso,
quantunque nessun dolore mi affligga anzi vada traendo la più lieta vita di questo mondo. Di tutto e di tutti son soddisfatto, e i miei trent’anni, in fin dei conti, non son la vecchiezza» (K. Hamsun).
Thomas Mann ebbe a definirlo il più grande dei viventi, sostenendo né Dostoevskij né Nietzsche avessero lasciato nella terra loro un discepolo di tale rango. Viceversa Gottfried Benn confessava, nella propria autobiografia, come Pan, Misteri, Fame dovessero profondamente scuotere la sua generazione. Knut Hamsun – di lui stiamo parlando – è infatti il poeta (alienato, dilacerato) di quello che con Alfred Kubin potremmo chiamare: Paese del Sogno. Paese che in Pan – trasfigurato da uno spinto, panico lirismo – si riflette
nel boreale riverbero dell’estate del Nord, sotto al cui invetriato cielo si consumano amori a contrasto, incomponibili rapporti umani, assenti ma anelate armonie naturali: insomma – nonostante, o appunto in ragione del romantico titanismo di Hamsun – l’atona, impalpabile crudeltà del cosmo.”
Pan
