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di Riccardo Lazzarato

Il Laboratorio di archeologia filosofica è una delle realtà più stimolanti all’interno del panorama filosofico italiano attuale. Le orecchie un po’ più allenate alla filosofia, nel momento in cui sentono parlare di “archeologia filosofica”, associano a questa disciplina autori come Foucault o Agamben. Se è vero che tale nesso non sia affatto da disdegnare, qui dobbiamo cercare di dare ragione di tale associazione e dovremmo analizzare quale pratica di discorso chiama in causa autori così fondamentali della filosofia degli ultimi settant’anni. Alessandro Baccarin e Paolo Vernaglione Berardi, autori de Quaderni di archeologia filosofica e fondatori del Laboratorio di archeologia filosofica, come intendono riallacciarsi a questa tradizione di recente elaborazione? Innanzitutto, il primo passo che viene compiuto fin dall’introduzione di quest’opera è quello di denunciare la propria inattualità; di fatti ogni presente per essere vissuto nella sua contemporaneità necessita di una sfasatura e questi saggi, raccolti e pubblicati con edizioni Efesto, testimoniano il tentativo di lasciar traccia di questo movimento di ritorno che il pensiero intrattiene con l’epoca storica in cui si manifesta e in cui arriva ad espressione. Come leggiamo sul ricchissimo sito del laboratorio[1], l’archeologia mira ai punti di insorgenza e ai loro ritmi di ripetizione e di oblio; prende in carico i saperi, i poteri, i soggetti, quindi i regimi di veridizione in quanto costitutivi dei fenomeni politico-sociali. Il termine archeologia deriva dal greco e significa discorso sull’arché. Come dobbiamo intendere questa arché? Otteniamo la risposta proseguendo nella lettura della presentazione che fa di sé, sul proprio sito, il laboratorio: Arché, perciò, è da intendersi come un non-detto che sfugge alle maglie di ciò che è già stato detto: nell’indicare le forme evanescenti dell’indicibile e dell’inarchiviabile, l’archeologia filosofica assume la forma di un movimento del pensiero, ai margini del linguaggio e dei poteri istituenti.

Il movimento che ci trascina pagina dopo pagina, in questo agile volume, mira ad indagare le condizioni del suo stesso prodursi in rapporto ai processi di concentrazione da cui emerge. Il file rouge sotterraneo che viene sviluppato e unisce ciascun saggio è a tutti gli effetti un esercizio di testimonianza che potremo definire “radicalmente onesta”; ci troviamo di fronte ad un archivio, il quale tenta di mostrare i suoi stessi limiti intrinseci. Il resto archeologico, così come la filosofia, richiede un metodo preciso per essere trattato, per essere maneggiato; non possiamo relazionarci con esso nello stesso modo in cui la materia inerte. L’archeologia, quando è davvero tale, non lascia che ci si affacci su idoli da venerare, piuttosto diviene maestra di un metodo che insegna a scavare in un sito senza danneggiare ciò che circonda il manufatto e il manufatto stesso. Dobbiamo porre attenzione circa il modo in cui interveniamo, operare con cura e precisione, perché quando maneggiamo qualcosa che appartiene al passato siamo sempre esposti al rapporto anacronistico con i resti che rinveniamo e allo stesso tempo siamo esposti alla possibilità di oblio di tali resti. Ma diciamo ancora di più: il metodo archeologico richiede lo sforzo perenne di interpretare ciò che spesso, in modo esageratamente passivo, ereditiamo forzando le categorie abituali di pensiero, le quali vengono così rimesse in discussione. Forse l’insegnamento più vivido che possiamo ricavare dalla lettura di questi saggi concerne proprio la postura che un monumento, e quindi un manufatto, richiede per essere osservato. Posti di fronte ad un discorso possiamo imparare a comprendere, attraverso un metodo archeologico, ciò che in quel discorso circola senza riuscire a emergere esplicitamente, ovvero ciò che rende possibile quel tale discorso – le sue condizioni di verità ed esistenza. Le parole sono come statue: congelano un’epoca e ne conservano la memoria (p. 91). Se è vero che nelle parole congeliamo la memoria di un’epoca è altrettanto vero che dobbiamo imparare a maneggiare con cautela questi cristalli di memoria.

All’interno di questa collana, Archeologia filosofica, di cui i Quaderni sono espressione, emerge un particolare corpo a corpo con autori e problemi spesso ritenuti troppo complicati e relegati ad un piano di secondaria importanza nel discorso filosofico. Qui, però, i problemi e gli autori vengono usati, piegati, in qualche modo sfruttati, per tentare di mostrare tutti gli impliciti delle pratiche di vita e dei dispositivi di potere con cui ci interfacciamo. Ora più che mai lo scarto fra percezione del mondo e il mondo in cui viviamo, fra il reale e il discorso che se ne produciamo, fra la presenza al mondo e la nostra assenza, si è fatto talmente enorme da strappare il velo di ipocrisia che da secoli copre l’uso criminale che facciamo di questo mondo (p.17). L’obbiettivo della ricerca archeologica, all’interno di un discorso filosofico, non è quello di riuscire a ripetere con verità quel che ha detto Nietzsche o Deleuze, giusto per citare due nomi che circolano in questi testi, quanto piuttosto porsi con un certo atteggiamento all’interno di quella sfasatura che si apre tra il reale e il discorso che di quel reale se n’è fatto e si continua tutt’ora a fare. Ecco che ci appare il grande sentimento rivoluzionario che ritroviamo alla base dei sentieri tracciati in questi saggi, un sentimento di rottura radicale con il proprio presente; tale frattura è necessaria per avviare il cammino richiesto dal pensiero. In questo senso potremmo dire che l’obbiettivo ultimo di questi saggi sia quello di disinnescare le pratiche di vita insostenibili e cancerogene, perché solo attraverso un attento studio del nostro modo di rapportarci con il mondo (gli altri/la natura) e con noi stessi siamo in grado di ottenere gli strumenti necessari a ripensare una postura attraverso cui vivere insieme, che in una battuta significa viversi accanto nel sarcofago della propria identità (p.23).

In ultima istanza è bene sottolineare il secondo grande tentativo, tale solo per esposizione e non per gerarchia, che impegna i nostri due autori, sintetizzabile utilizzando la formula «contestare l’incontestabile». Con questa coppia di termini, presa in prestito dal titolo del primo paragrafo del saggio Paradigmi di potere, indichiamo, sulla scia dell’autore, lo sforzo di destituire il potere come “potere necessario” attraverso una genealogia del potere che sia in grado di far emergere, da una parte, l’assenza di sostanza e fondamento del potere e, dall’altra, il fatto che il potere si esprima sempre all’interno di precise tecnologie di amministrazione e particolari dispositivi di disciplinamento, controllo e normalizzazione. Dunque intorno alla nozione di governo, un’archeologia del potere lascia emergere i limiti della filosofia politica, e la produttività di un altro paradigma in cui convergono sia l’interpretazione filosofico-politica che quella storico-politica (p. 212). Notiamo così un tentativo di pensare e sperimentare radicalmente l’anarchia, non più nel solco della tradizione del pensiero politico anarchico, bensì attraverso una «an-archeologia», che consiste nello sperimentare che nessun potere,… sia accettabile a pieno diritto e sia assolutamente e definitivamente inevitabile (p. 226).

Questo volume ha il merito di unire in un rapporto di vicendevole rimando e supporto la pratica storica nella sua accezione archeologica e il metodo di esposizione filosofica, dando così vita ad un discorso ibrido, a tratti sperimentale, che cerca in tutti i modi di resistere a quel processo che denatura il discorso, prosciugandone la vitalità e, inaridisce le pratiche di vita obliandone la genealogia. Per il lettore meno allenato alla filosofia questo testo si risolverà in un’intensa passeggiata attraverso alcuni luoghi eminenti del pensiero, dove verità, potere e corpi si intrecciano in pratiche di vita e di discorso che aprono nuovi orizzonti.


Torino, 9 Giugno 2020






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