«Gli estetismi sono altrettante cose morte, e dunque altrettanti veleni che intossicano la vita dell’umanità. Tutto il male che inferma il mondo, e genera ogni genere di crisi, e fa scoppiare le guerre, e rende necessarie e “salutari” le rivoluzioni: tutto il male nasce dall’accumularsi degli estetismi, ossia dall’accumularsi dei residui e delle sopravvivenze che a poco a poco compongono enormi sedimenti di cose inattuali, di cose false, di cose morte; di “corpi estranei” rimasti nell’organismo della vita attuale, di contraddizioni e d’impedimenti alle presenti leggi della vita» (A. Savinio).
Maupassant e “l’Altro” è forse il testo più felice e inclassificabile di Savinio. Al contempo saggio, divagazione, rêverie, frammento autobiografico, lo vediamo sciogliersi a ogni piè sospinto in irriverenze e acutezze affilatissime, come di belcantistico tenore. Alla fine del ghiribizzoso itinerario tra più o meno remoti conoscenti e luoghi malpassantiani – che si chiude con la pazzia recata dall’«inquilino nero» –, il lettore si accorgerà di aver colto in vivo non solo (ché sarebbe poco) la vita e l’opera di Maupassant, ma finanche tutto l’ambiente in cui egli viveva, tutta l’epoca ch’egli respirava: l’Ottocento. Quella imbarazzante, oscura epoca che fu l’Ottocento. E che nessun altro all’infuori di Savinio avrebbe potuto dipingere con altrettanta disincantata grazia.