«Si tratta di sangue. Si tratta dell’immolazione propriamente detta. Si tratta di spiegare come gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi abbiano potuto accordarsi nel credere che ci fosse, non già nell’offerta delle carni (bisogna pure sottolinearlo), ma nell’effusione di sangue, una virtù espiatrice utile all’uomo. Ecco il problema, che non cede al primo sguardo» (J. de Maistre).
Nessuno meglio di Joseph de Maistre ha riconosciuto, d’amblée e malgré soi, il potenziale suicidario inerente alle dottrine dell’Illuminismo. E in fatto la sua politische Theologie, cupamente splendida, foscamente risonante, corre sotterranea ai secoli. In certo senso, pare quasi la night-vision del luciferino Conte abbia antiveduto ovvero profilato in arcano incubo tutto il XX secolo: Auschwitz e i Gulag, carestie e torture, Pol Pot e Idi Amin. Nelle Serate di San Pietroburgo, altronde, Maistre lo dice a chiare lettere: per lui, l’universo è immenso altare sacrificale. Al punto che non sorprende vi abbia dedicato – al sacrificio s’intende – un intero trattato. Lumi sui sacrifici: ovviamente la luce da tale testo irradiata è al contempo la più buia delle notti. «Questo libro è scritto davvero alla fine della storia», ha detto una volta Jean Louis Schefer. Ma la fine della storia – la sua scena sanguinaria – noi la esperiamo ogni giorno. Dal 1789, Maistre, sapidamente assiso sulla sua terrazza pietroburghese, rischiarata da una notte bianca e insonne, apocalittica e spettrale, interminabile e accecante – non smette di interpellarci. Sì che una cosa è certa: il tribunale ch’egli (il nostro più caro nemico) presiede, non è ancora stato tolto.