«Sono uscito dalla mia biblioteca per vedere un po’ quanto si combinino colle regole di sapienza di negozii di questo mondo» (I. Nievo).
Conte philosophique dal ritmo incalzante, un po’ à la Candide ma anche autonomo rispetto all’esempio volterriano, le avventure del barone di Nicastro sono state scritte nel momento della massima maturità della penna di Nievo, vicinissimo alle Confessioni d’un italiano. Dopo essere vissuto fino ai quarant’anni chiuso nella sua biblioteca, il protagonista di questo romanzo ne esce per misurare con l’esperienza «il valore degli uomini e delle cose», alla ricerca della virtù e – perché dev’essere virtù «a cavallo d’un bel numero» – della sua rappresentazione numerica. Inizia così un rocambolesco viaggio nell’incubo del numero due, simbolo di divisione, di contraddizione, e perciò nemico della virtù. Ciò che Nicastro troverà nel suo peregrinare sarà però sempre l’ubiquità del due, fonte di ogni sciagura umana. Non gli resterà alla fine che ricondursi nel suo castello, provato nello spirito e nel corpo. A proprie spese aveva visto confermato un vecchio presentimento, cui non saranno estranee la cultura risorgimentale e l’intraprendenza politica – ma quanto piena di malinconie – dello stesso Nievo: «temo assai,» si era confessato in un minuto di scoramento, «che vi sieno due vite; l’una piena di ragioni e di sogni che si pensa nelle biblioteche, l’altra ispida di contraddizioni e di verità, che si agita pazzamente nel mondo».